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Santa Caterina Tekakwitha Vergine

17 aprile

Auriesville, Stati Uniti d’America, 1656 – Sault, Canada, 17 aprile 1680

Nacque intorno al 1656 nel villaggio di Ossenernon, oggi Auriesville nello Stato di New York, figlia di padre Mohawk e madre algonchina; quest’ultima era cristiana. A quattro anni perse la sua intera famiglia (padre, madre e fratello minore) per un’epidemia di vaiolo; lei sopravvisse, ma col volto sfigurato e con problemi alla vista. Visse da allora con la famiglia di uno zio, spostandosi in vari insediamenti, fino a quello di Caughnawaga o Kahnawake, nell’attuale territorio del Canada. Uno dei possibili significati del nome che le fu dato, Tekakwitha, è “colei che mette le cose in ordine” e rimanderebbe quindi alla sua abilità nei lavori manuali, oppure, in riferimento ai suoi impedimenti nella vista, “colei che cammina facendosi strada”. Nel 1675 alcuni gesuiti francesi, missionari in Canada, giunsero nel suo villaggio. I loro racconti la affascinarono tanto da condurla a rifiutare varie proposte di matrimonio, fatto insolito per gli usi del suo popolo. Il 16 aprile 1676 ricevette il Battesimo: il suo nome cristiano fu Caterina, anzi, Kateri in lingua irochese. Lo zio non si era opposto, a patto che non lasciasse il villaggio. Quando però la persecuzione e l’ostilità da parte dei parenti e degli altri membri le parve insostenibile, Kateri fu aiutata a fuggire nella missione di San Francesco Saverio, a Sault St-Louis, oggi in territorio canadese. Lì trascorse il resto della sua vita, lavorando, mortificandosi e pregando a lungo sia nella cappella del villaggio, sia in mezzo ai boschi. Ricevette la Prima Comunione nel Natale del 1677, mentre il 25 marzo 1679 consacrò pubblicamente e solennemente a Dio la propria verginità. Morì il 17 aprile 1680, a circa ventiquattro anni, in seguito alla sua ultima e dolorosa malattia, che accettò con gioia. Per il suo attaccamento a Gesù come unico Sposo, divenne nota come “il giglio dei Mohawk”. Fu beatificata da san Giovanni Paolo II il 22 giugno 1980 e canonizzata da papa Benedetto XVI il 21 ottobre 2012; era la prima nativa americana a essere dichiarata Santa. I suoi resti mortali sono venerati nel santuario a lei dedicato a Caughnawaga. La sua memoria liturgica ricorre il 17 aprile, giorno della sua nascita al Cielo.

Martirologio Romano: A Sault nel Québec in Canada, beata Caterina Tekakwitha, vergine, che, nata tra gli Indiani nativi del luogo, fu battezzata nel giorno di Pasqua e, benché perseguitata da molte minacce e da vessazioni, offrì a Dio quella purezza che quando non era ancora divenuta cristiana si era già impegnata a conservare.


Nacque intorno al 1656 nel villaggio di Ossenernon, oggi Auriesville nello Stato di New York. Suo padre era un capo del popolo dei Kanienkehaka, più noto come Agniers o Mohawk, mentre sua madre era degli Algonchini ed era cristiana; morì di vaiolo prima di poter chiedere il Battesimo per i suoi due figli, di cui la femmina era la maggiore.
A quattro anni rimase orfana. Il vaiolo scoppiato nel 1660 le aveva distrutto la famiglia e le aveva deturpato il volto attorno agli occhi. Venne accolta nella capanna di un suo zio paterno, nel villaggio di Caughnawaga o Kahnawake, costruito dopo l’epidemia, dove crebbe ritirata e serena, dedita alle faccende domestiche, con un’anima naturalmente cristiana. Quando doveva uscire dalla capanna per andare a fare legna nella foresta o ad attingere acqua alla sorgente vicina, si avvolgeva in un ampio scialle dal colore cremisi per difendere gli occhi malati dalla viva luce del sole. Nelle ore di riposo, paga della compagnia delle zie e di una sorella adottiva, confezionava piccoli utensili domestici con le fibre delle radici o le cortecce degli alberi. Essendo assai ricercati, rappresentavano una fonte non indifferente di guadagno per la famiglia che l’ospitava. Più tardi imparerà a tramutare la pelle dell’alce e del bufalo in graziose borsette, e ad arabescare di cento disegni le grandi sciarpe dei guerrieri e dei cacciatori.
Il nome con cui era conosciuta, Tekakwitha, ha un significato discusso. Secondo alcuni, significa “colei che mette le cose in ordine”, in riferimento alla sua abilità manuale. Secondo altri, è un appellativo che le venne attribuito a causa del suo problema alla vista: significherebbe allora “colei che sposta le cose”, “colei che spinge con le mani” o “colei che cammina facendosi strada”.
Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.
Nel 1667 gli Irochesi, la federazione di popoli cui apparteneva, si erano finalmente decisi a stringere un patto di amicizia con il Canada, dal 1632 divenuto una provincia della Francia, dopo la guerra condotta contro di loro nel 1666 e terminata con la distruzione di tutti i villaggi della vallata del Mohawk. Intermediari di pace furono tre missionari gesuiti decisi a evangelizzare quei popoli anche a costo della vita, come in precedenza avevano fatto i loro confratelli (canonizzati nel 1930), i padri René Goupil (+1642), Isaac Jogues (+1646) e il fratello coadiutore Jean de La Lande (+1646). I tre “vestenera”, come li chiamavano i nativi per via dell’abito, ovvero padre Jean Frémin, padre Jean Bruyas e padre Jean Pierron, furono accolti nella grande capanna dello zio di Tekakwitha, capo del nuovo villaggio chiamato Caughnawaga. Nel breve tempo della loro sosta essi parlarono alla santa fanciulla di Dio e del suo infinito amore per gli uomini. L’anima di lei ne rimase conquisa per sempre tanto che crebbe con una invincibile ripugnanza, sconosciuta alla sua gente, per la vita matrimoniale.
Per accrescere il benessere della famiglia le vecchie zie di Tekakwitha non vedevano l’ora di darla in sposa a qualche gagliardo cacciatore. Alla proposta, la fanciulla impallidì, e non l’accettò sia perché era ancora troppo giovane e sia perché non intendeva contrarre matrimonio. Le zie, anziché darsi per vinte, sperarono di giungere al fidanzamento con la sorpresa e l’inganno. Scelsero il fidanzato, stabilirono il giorno dell’incontro ufficiale d’accordo con i parenti, e incominciarono a circuire l’orfana con insolite cortesie. Una sera la invitarono a sedere vicino al fuoco, al posto della zia più anziana. Frattanto la capanna cominciava ad affollarsi di invitati recanti sorrisi e regali. Ad un certo momento entrò anche il giovane prescelto, guardò la fanciulla a lui predestinata, si accostò incerto al focolare, fece cenno di sedersi accanto a Tekakwitha, ma costei, intuito il piano strategico delle zie, confusa e rossa in viso, si alzò di scatto e fuggì fuori della capanna sospirando: “Mio Dio, salvami da chi mi vorrebbe sua sposa. Prendilo Tu il candido giglio della mia verginità. È tuo, e tuo sarà per sempre”. Tekakwitha non rivarcò la soglia della capanna se non quando fu deserta, ma dovette subire un trattamento molto duro da parte di coloro che non comprendevano le sue aspirazioni.
La perseguitata trovò conforto nel frequentare la cappella che nel villaggio aveva eretto padre Jean Pierron in onore di San Pietro. Essendo costui pittore delineava in tanti quadri i principali misteri della fede, e li spiegava ai selvaggi come poteva non essendo ancora padrone della lingua. Diversi bambini e alcuni adulti ricevettero il battesimo. Anche la nipote lo desiderava ardentemente, ma lo zio non ne volle sapere. Diverse famiglie cattoliche per vivere in pace la loro fede si erano trasferite in Canada, a Sault St-Louis, sulla riva del San Lorenzo, nella missione di San Francesco Saverio, eretta dai Gesuiti per l’evangelizzazione degli Uroni e degli Algonchini.
Nel 1670 nella direzione della missione a padre Pierron successe padre François Boniface il quale, conoscendo bene la lingua degli autoctoni, moltiplicò le conversioni. Alla sua morte (+1674) giunse a sostituirlo, dalla Francia, padre Jacques de Lamberville. Egli per trentasette anni sarà l’apostolo degli Irochesi. Nella primavera del 1675, approfittando dell’assenza degli uomini e delle donne dalle capanne, dalla mattina alla sera, a motivo delle semine, si recò qua e là per confortare i malati e visitare i bambini. Non era mai entrato nella capanna dello zio di Tekakwitha perché lo sapeva contrario al missionario, ma quel giorno una voce misteriosa lo spinse a varcarne la soglia. La ragazza, ormai diciannovenne, ne fu felice. Narrò al ministro di Dio la sua triste storia, gli parlò della sua irriducibile contrarietà al matrimonio e gli espresse la brama che sentiva del battesimo. Padre Jean ne rimase commosso fino alle lacrime. Non si sarebbe mai sognato difatti di trovare nella capanna di un suo fiero avversario un’anima così misteriosamente segnata dalla grazia. Il Battesimo alla casta giovane fu differito quasi di un anno per le dolorose defezioni di cui i missionari erano consci. Tekakwitha divenne figlia di Dio il 16 aprile 1676, solennità di Pasqua, attorniata da altri cristiani nativi, adorni delle loro penne variopinte che si alzavano alte a raggiera attorno alle loro fronti. Lo zio non vi si era opposto a condizione che la nipote non abbandonasse il villaggio. Le era stato imposto il nome di Caterina, o meglio, Kateri in lingua irochese.
Da quel giorno Kateri trascorse la sua vita tra il lavoro e la preghiera, la capanna e la chiesa. Non sapendo né leggere, né scrivere, con grande semplicità e fiducia ricorreva al missionario in ogni dubbio e difficoltà, e il ministro di Dio la rassicurava, l’incoraggiava e le indicava la maniera migliore per progredire nella virtù. Nei giorni di festa, Kateri rimaneva più a lungo nella chiesetta del villaggio invece di andare con gli zii a lavorare nei campi o nella foresta, ma costoro, avidi come erano di guadagno, cominciarono a maltrattarla, a considerarla una fannullona, a negarle persino, in quei giorni, il cibo necessario. Kateri resistette incrollabile ai nemici della sua fede come in precedenza aveva resistito ai nemici della sua verginità. Contro di lei le zie assoldarono i monelli del villaggio perché la insultassero e la prendessero a sassate al grido di “cristiana” quando, mattina e sera, usciva dalla povera chiesetta intessuta di cortecce d’alberi. La giovane, pur di rimanere fedele a Cristo, avrebbe versato con gioia il proprio sangue. Anche lo zio infierì contro di lei. Un giorno incaricò persino un giovane di penetrare nella capanna quando la nipote era sola, e di minacciarla di morte facendole roteare una scure sopra il capo. Sperava, in quel modo, di costringerla a ritornare alla religione degli antenati, ma lei disse senza scomporsi all’aggressore: “Eccomi pronta. Puoi togliermi la vita, ma non la fede”.
Gli zii erano decisi a riuscire nei loro perversi intenti anche a costo di fare ricorso all’arma della calunnia. Nell’inverno del 1677, il capo di Caughnawaga partì con la famiglia per la grande caccia nella foresta di Saratoga. La zia più vecchia, che vedeva, nel comportamento molto riservato della nipote, un rimprovero alla propria vita pagana, le pose gli occhi addosso per coglierla in qualche fallo e umiliarla. Un giorno Kateri, parlando del vecchio zio con alcuni cacciatori, dimenticò di aggiungervi il titolo “mio padre” secondo le usanze degli indiani. Bastò questo alla perfida vecchia per pensare a una tresca tra la nipote e lo zio. Al termine della caccia, la zia corse dal missionario e accusò la nipote di tale misfatto, ma il “vestenera”, al corrente della preconcetta ostilità della delatrice, la congedò senza darle credito. Interrogò in seguito l’accusata, ma la fanciulla, inorridita solo al pensiero di un simile peccato, dichiarò che mai aveva macchiato la purezza del suo giglio.
Da quel giorno Kateri comprese che il villaggio non offriva più sicurezza né per la sua virtù, né per la sua fede. Con il concorso del missionario da quel momento pensò alla fuga nella missione di Sault St-Louis, dove avrebbe potuto vivere, in pace, nella capanna della sua sorella adottiva che colà si era trasferita e ora desiderava averla con sé. Suo angelo tutelare nella fuga fu un fiero irochese, della tribù degli Oneidas. Dopo la conversione costui era diventato, in qualità di catechista, un prezioso collaboratore dei missionari. Ogni tanto organizzava spedizioni apostoliche nelle vallate irochesi in compagnia di altri due cristiani tra cui il marito della sorella adottiva di Kateri. Nel 1677 era capitato proprio a Caughnawaga. Venuto a conoscenza delle persecuzioni odiose alle quali era sottoposta la giovane, al termine del suo giro missionario la prese con sé nella canoa. All’alba di quel giorno lo zio si trovava nel vicino Fort-Orange per affari con gli inglesi. Appena costui ne ebbe sentore, imbracciò furente il fucile, saltò nella sua canoa e inseguì i fuggitivi. Li raggiunse nel cuore della foresta, ma non riuscì a mettere le mani sulla nipote perché, al suo apparire, il cognato che la seguiva con una fucilata l’aveva avvertita dell’imminente pericolo, ed ella era riuscita a nascondersi in un groviglio di liane.
A Sault St-Louis, ai confini tra il Canada e Stati Uniti, Kateri fu avviata alla santità da padre Pierre Cholenec, superiore della missione, e da padre Claude Chauchetière, suo collaboratore. Quella località veniva chiamata pure “Villaggio della preghiera” per la serietà con cui le varie tribù degli irochesi, degli uroni e degli algonchini si davano all’orazione e ad ogni opera buona. Caterina non poteva desiderare un ambiente migliore. Nella lettera di presentazione a padre Cholenec, padre Jacques diceva: “Kateri Tekakwitha viene a Sault St-Louis. Vi prego di volervi interessare della sua direzione. Conoscerete presto il dono che vi facciamo; è un tesoro”.
La giovane fu ospitata subito nella capanna della sorella adottiva, dove trovò pure Anastasia Tegonhatsigongo, la dolce amica della sua mamma e la più autorevole cristiana del villaggio, fuggita anche lei per gli stessi motivi dalla valle del Mohawk. La gioia di Kateri raggiunse il colmo. Ne parlava quasi estasiata ai missionari, motivo per cui prese subito con ardore a praticare quanto di edificante vedeva compiere dagli altri. In breve tempo si distinse talmente tra le giovani della missione che tutti, francesi e indiani, l’ammirarono. Il vaiolo le aveva deturpato il viso, la poca salute l’aveva resa esile e quasi diafana, eppure da lei si sprigionava un fascino che incantava. I suoi sorrisi erano sempre molto luminosi.
A Sault St-Louis, Kateri condusse una vita apparentemente semplice, senza estasi e senza visioni. Invece la sua unione con Dio fu totale e continua. Ogni mattina e ogni sera si recava nella povera chiesetta della missione per attingere dalla grazia divina la luce e la forza necessario per più ardue ascensioni. Durante il giorno continuava la sua preghiera nel silenzio della capanna, mentre lavorava nei campi o ascoltava il fruscio degli alberi nella foresta, mentre si beava al profumo dei fiori o alla contemplazione della grande croce solitaria che dominava la riva del fiume. Una cosa ancora le mancava, l’incontro con lo sposo dell’anima sua nella Comunione. Kateri vi si preparò vivendo e lavorando in compagnia di Anastasia, visitando e aiutando i malati, consolando gli afflitti. Attestò padre Cholenec che “non poteva soffrire che si parlasse bene di lei. Allora fuggiva o con un lembo del suo scialle si copriva, per rossore, il volto pudico”.
Nel villaggio la giovane esercitava un meraviglioso ascendente su tutti gli indiani, ma in modo speciale sui bambini. Preoccupata del loro avvenire cristiano, faceva festa quando li incontrava per le viuzze del villaggio. Per tutti aveva un sorriso, una carezza, una buona parola. I missionari, consci dell’incostanza dei nativi, non li ammettevano alla prima comunione se non dopo molti anni di prove. Per dare ai battezzati un’idea altissima dell’Eucaristia la stessa condotta tennero con Kateri. Per il suo primo incontro con Dio scelsero la solennità del Natale 1677. Quando quel sospirato momento venne, ne pianse di gioia. Affermò padre Cholenec; “Da quel giorno ella pareva più creatura del cielo che della terra, tanto restò piena di Dio e del suo amore”. Ebbe in seguito la felicità di comunicarsi sovente, ma lo fece sempre con tanta devozione che le donne più devote cercavano di mettersi accanto a lei per infervorarsi nello spirito.
Nell’inverno del 1678 anche Kateri, per dovere di giustizia, si inoltrò nella foresta per la grande caccia. Colà, prima del lavoro, si ritirava lungo le rive del ruscello vicino, dove le querce intrecciavano i loro rami a forma di arcata, e sostava a lungo in preghiera davanti alla rozza croce che aveva intagliato sul tronco di un vecchio abete. Chiudeva le sue devozioni con una dura disciplina. Durante la giornata prendeva parte ai lavori del gruppo, e quando la conversazione delle compagne si faceva più rumorosa, ella le incitava a cantare qualche inno imparato nella chiesetta della missione. C’era però chi la spiava con occhi torbidi e lei lo ignorava.
All’inizio della primavera del 1678 i cacciatori avevano già fatto ritorno con le loro famiglie al villaggio per le semine e per la celebrazione della Pasqua. Era la prima volta che Kateri vi prendeva parte e faceva la sua seconda comunione tra un profluvio di lacrime. Alla meditazione fatte dai missionari sulla Passione del Signore ella sentì crescere in sé il misterioso desiderio della sofferenza. Cercò di soddisfarlo in mille maniere. Per la vita sempre più edificante che conduceva, i missionari le permisero di iscriversi all’Associazione della Santa Famiglia che il primo vescovo di Québec, monsignor François Montmorency-Laval (canonizzato nel 2014), aveva approvato.
Il desiderio della giovane di soffrire sempre di più per amore del Signore fu presto appagato. Durante la grande caccia, una donna, gelosa del marito, aveva guardato con sospetto le uscite di Kateri dalla capanna all’alba, e le prolungate veglie di lei al termine del giorno. Una notte suo marito, avendo dovuto durante il giorno inseguire a lungo un cervo, ritornò stanco alla capanna. Invece di andare a coricarsi accanto alla moglie, si era sdraiato e addormentato sul primo giaciglio che nel buio aveva trovato: quello poco lontano da Kateri. Un’altra volta, parlando di una canoa che aveva preparato nella foresta per il ritorno nel villaggio, l’uomo aveva detto che lei l’avrebbe aiutato a trasportarla fuori di là perché era molto abile e caritatevole. Alla donna gelosa non occorse altro per pensare a una tresca del marito con Kateri. Si presentò quindi al missionario e li accusò di azioni disoneste. Il missionario, costernato, chiamò a sé la fanciulla, le manifestò l’atroce accusa, ma lei, pur con lo schianto in cuore, fissò serena il missionario, e poi con voce sicura gli disse: “Non ho nulla da rimproverarmi”,
Essendo sola la mondo, non stupisce che Kateri sentisse come tutti il bisogno dell’amicizia. Ne contrasse una con una irochese trentenne, Tegaiaguenta. Padre Bruyas l’aveva battezzata con il nome di Maria Teresa, ma ella cominciò a vivere secondo gli insegnamenti della fede soltanto dopo la morte per fame del marito durante una grande caccia. Ai piedi della croce, davanti alla quale Kateri amava prolungare le sue preghiere, si narrarono le loro tristi vicende, e proposero di vivere spiritualmente unite nella preghiera comune e nella penitenza.
Sull’avvenire di Kateri, la sorella adottiva credeva di potersi arrogare qualche diritto di decisione. Essendo contrario alle usanze delle giovani irochesi il rimanere sempre zitelle, cominciò anche lei a farle proposte di matrimonio. Se fosse rimasta sola al mondo chi si sarebbe preso cura di lei? Padre Cholenec, al quale la giovane si era rivolta, le raccomandò di pregare e di riflettere bene prima di prendere una decisione, essendo lei sola responsabile del suo avvenire. Kateri accolse l’invito ma, siccome continuava a provare una invincibile avversione per il matrimonio, sia alla sorella adottiva e sia al missionario dichiarò che, a costo della miseria e della fame, sarebbe stata per sempre soltanto la sposa di Gesù!
Alla scuola dei missionari Kateri crebbe pure nella devozione alla Madonna. In Lei era certa di trovare una potente difesa alla sua purezza, virtù ignorata dai nativi. Quando ne parlava si stringeva fortemente al petto il rosario che portava sempre appeso al collo come un prezioso monile. Da buona figlia di Maria lo recitava ogni giorno, con le Litanie Lauretane talora persino con i piedi affondati nella neve. Ogni sabato onorava Maria SS. con speciali preghiere e mortificazioni. Meritò così il 25 marzo 1679 di consacrare pubblicamente e perpetuamente a Dio il candore della sua verginità.
Fino alla morte Kateri conservò intatta la sua innocenza battesimale, pregando e facendo penitenza. Aveva capito alla perfezione le parole di Gesù: “Chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Sentì ella il fascino della sofferenza pensando ai dolori del Figlio di Dio e ai gravi disordini ai quali si abbandonavano ovunque gli indiani. Nella ricerca delle mortificazioni era assecondata dall’amica Maria Teresa, un tempo apostata. Personalmente Kateri doveva riparare soltanto piccole vanità della prima giovinezza: capelli ben ravviati, abiti più appariscenti, ninnoli e fronzoli al collo e ai polsi.
Kateri aveva iniziato segretamente la vita di mortificazione fin dalla fanciullezza, ma nella missione canadese la volle inasprire. Digiunava ogni mercoledì e sabato. Sovente il nutrimento, già scarso, lo rendeva insipido con la cenere. Attorno ai fianchi portava una specie di fascia intessuta di punte di ferro, e talora si buttava sui fasci di spine da lei raccolte lungo le siepi. Ogni sabato, con la sua amica, prima di andarsi a confessare da padre Cholenec, si ritirava in una capanna, fuori del villaggio, per pregare e farsi dare una dura disciplina sulle spalle con un fascio di verghe. Tra le lacrime la giovane sospirava: “O Gesù, misericordia, pietà!”. Due giorni dopo la morte apparirà alla vecchia Anastasia con una croce tra le mani e le dirà: “Mamma, guarda questa croce quanto è bella! Essa fu la mia felicità per tutta la vita. Oh, quanto desidero che tutti l’amino come io l’amai!”.
Già fino dal marzo del 1679 Kateri aveva incominciato a deperire, forse in seguito a tante penitenze che non sempre i missionari riuscivano a moderare. In uno sforzo supremo continuò a frequentare la chiesetta, a lavorare nella capanna, e a praticare la mortificazione. Nell’inverno del 1680 rimase immobile nel suo lettuccio e assorta in profonda meditazione. Fu assistita da padre Chauchetière il quale, a sollievo dell’inferma che amava tanto l’innocenza dei bambini, ogni tanto si faceva accompagnare dai fanciulli ai quali faceva il catechismo. Due mesi prima di morire disse al missionario che sarebbe andata in Paradiso nella Settimana Santa. Quando le fu portato il Viatico fu lieta di poterlo ricevere con la candidissima veste di seta che la sua amica le aveva prestato. Morì, assistita da padre Cholenec, invocando i nomi di Gesù e di Maria il Mercoledì Santo 17 aprile 1680, come aveva predetto ad alcune donne dell’Associazione della Santa Famiglia.
La salma verginale di Kateri non fu posta in una povera corteccia di albero, avvolta in una coperta, secondo il costume indiano, ma in una cassa di legno, dono di due francesi. Oltre che ad Anastasia, l’angelica fanciulla apparve pure a padre Chauchetière e all’intima sua amica. Sulla sua tomba cominciarono ad accorrere indiani e francesi da ogni parte, persino da Montreal e da Québec. Per intercessione di lei i miracoli si moltiplicarono.
Le reliquie della vergine pellerossa, poste in una cassetta di ebano, dal 1719 sono custodite dai Padri Gesuiti a Caughnawaga, nella diocesi di Albany. Pio XII ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 3 gennaio 1943 e Giovanni Paolo II la beatificò il 22 giugno 1980.
In seguito al riconoscimento di un miracolo, dopo che per la beatificazione era stata concessa la dispensa sui due allora richiesti, sulla base di una solida e provata esistenza della fama di miracoli, Kateri Tekakwitha fu canonizzata il 20 ottobre 2012 in piazza San Pietro a Roma, da papa Benedetto XVI; era la prima nativa americana a essere dichiarata Santa.


Autore:
Don Guido Pettinati SSP

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Aggiunto/modificato il 2022-08-01

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