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Padre Salvatore Deiana Missionario saveriano

Testimoni

Ardauli, Oristano, 17 luglio 1956 - Brasil Novo, Brasile, 16 ottobre 1987


Dal centro dell’isola
"Ha fatto il missionario con il piede sull'acceleratore", hanno detto di lui. Ed e' morto su un'automobile, mentre correva dai poveri. Il saveriano padre Salvatore Deiana aveva fretta di amare, di fare, di testimoniare il Vangelo. Forse sentiva di avere poco tempo. Se ne e' andato a 31 anni, dopo soli 4 di missione in Brasile. Un incidente al chilometro 23 della Transamazzonica, o un attentato contro il vescovo difensore dei deboli che viaggiava con lui.
"Non capisco, ma benedetto sia il Signore, benedetto sia": cosi' la mamma davanti alla sua bara. "Io sono convinto - aveva detto un giorno padre Salvatore parlando ai suoi conterranei prima di partire in missione - che il sacerdote, il missionario non nasce da solo, non spunta dal nulla, ma e' frutto della comunita', dell'impegno di tantepersone. Tutti noi abbiamo dei campi e li lavoriamo: sappiamo come vanno le cose. Per far crescere qualcosa bisogna preparare il terreno, arare, estirpare l'erba e infine seminare e lavorare ancora; solo alla fine si vedra' qualche frutto. Cosi' e' del missionario, del sacerdote. Vorrei allora ringraziare tutte le persone che hanno lavorato perche' questo giorno si avverasse, e sono tante, sarebbe impossibile nominarle tutte. Vorrei pero' farvi un augurio: che la comunita' cresca, che non si fermi, che continui a dar frutto. Non impedite al Signore di scegliere nuovi operai. Voi genitori non impedite che lo Spirito entri nelle vostre famiglie. Voi giovani, ragazzi e ragazze, rendetevi disponibili. Esci dalla tua terra...".
Quando pronuncia queste parole, padre Salvatore Deiana sta per uscire dalla sua terra. Li' e' tornato, appena 4 anni dopo, in una bara! Perche'? Perche' il Signore ha richiamato cosi' presto il suo operaio? Perche', quando la messe e' molta e gli operai pochi? "Non capisco, ma benedetto sia il Signore".
La terra di Salvatore e' la Sardegna. Nasce il 17 luglio 1956 a Ardauli, paesino al centro dell'isola, circa 1.400 abitanti, provincia di Oristano. Il padre Damiano, come tanti, e' emigrante, fa il minatore in Belgio; la mamma si chiama Lina Ibba. Hanno gia' avuto un figlio, Pasqualino, morto di anemia, a 6 anni e mezzo, due mesi prima della nascita di Salvatore. Poi arriveranno tre sorelle: Antonietta nel 1958, Natalina nel '59 e Luisella nel '63.

I primi incontri
Lo battezzano il 12 agosto, Salvatore, che tutti chiameranno poi, per sempre, semplicemente Tore. Lo cresce la mamma, perche' il papa' e' lontano, a lavorare. Va all'asilo, poi alle elementari:e' bravo, anche se non ha molto tempo per studiare, deve anche aiutare in casa. In terza, un giorno, viene a scuola un sacerdote vincenziano, padre Riva, che domanda ai bambini: volete diventare missionari? E Tore risponde di si'. Si', lo vuole: anche se non sa bene cosa voglia dire. Poi quel sacerdote va in missione e viene sostituito dal padre saveriano Giuseppe Marzarotto, che, con i suoi racconti, infiamma i bambini, Tore e il suo amico Torico Frau in particolare. "Mamma, ho dato la mia parola a un padre", dice un giorno Tore.
E la mamma: "Che parola?". "Voglio diventare missionario". "Figlio mio, ma se non lo capisco neppure io, come puoi capirlo tu che sei ancora in terza elementare?". Stessa risposta dal papa' che adesso lavora a Cagliari: "Pensa prima a diventare grande e a studiare, poi si vedra'!". Dopo due anni di contatti epistolari di padre Marzarotto con i due bambini e un campeggio vocazionale dei Saveriani, alla fine della quinta elementare, Tore e Torico, a settembre del 1967, undicenni, vanno a Macomer, nella casa apostolica saveriana. Confessera' Tore: "Ho sofferto parecchio il distacco dalla famiglia e dall'ambiente in cui vivevo". Presto arriveranno altri sei ragazzini compaesani di Ardauli. Tre anni di medie, tra studio, preghiere, giochi, e Tore impara anche a suonare la chitarra. Siamo nel '68 e dintorni.

Il gusto di lavorare per gli altri
Dopo un anno a Cagliari, dove i Saveriani tentano la novita' della scuola interna che non funzionera', di nuovo a Macomer per i primi due anni di liceo in un gruppo-famiglia in comunita'. Ricordera' Tore: "E' stata un'esperienza che mi ha subitoappassionato e nella quale mi sono buttato a tuffo: il rapporto familiare stabilito con i padri mi e' servito per superare le difficolta' dell'anno precedente, per acquistare un po' d'apertura e di dialogo. La responsabilita' che pian piano iniziavamo ad assumere ci rendeva senz'altro piu' maturi e coscienti della nostra vita. Ognuno di noi seguiva alcuni ragazzi delle classi inferiori e questo ci apriva ai problemi dell'educazione, del rapporto con gli altri. Personalmente ricordo come momenti fondamentali per la mia formazione: la scuola fuori, la classe mista, i problemi scolastici discussi e visti insieme al rettore e l'apertura verso l'animazione esterna. Spesso, infatti, uscivamo per le giornate missionarie ed io venivo talvolta prelevato dai giovani di Mani Tese per proiettare i filmati del terzo mondo nei vari paesetti dove questo gruppo lavorava. Avevo quindici anni. Ci prendevo gusto a lavorare per gli altri e l'aspetto missionario mi diveniva sempre piu' chiaro".
Si', Salvatore Deiana ha deciso davvero di fare il missionario. Fin da bambino tiene il piede sull'acceleratore: ha fretta di lavorare per gli altri. A settembre del 1973 arriva a Cagliari per il liceo. Con lui, l'amico Giorgio Zago: faranno insieme tre anni di scientifico e due di teologia, poi si separeranno, Giorgio Zago si sposera'. Vanno al Liceo Statale Pacinotti, tra scioperi, manifestazioni, proteste, gli ultimi strascichi di Sessantotto. E loro due, seminaristi, in mezzo a quel trambusto. Talmente amici che li chiamano Asterix (Tore, piu' mingherlino) e Obelix (Giorgio, piuttosto robusto) come i due irriducibili Galli dei fumetti di Goscinny e Uderzo, che a quel tempo arrivavano anche in Italia dalla Francia.

Al “Cristo divin lavoratore”
Intanto l'ora della scelta si avvicina. Riflette Tore: "La missione ad gentes e' stato il motivo principale che mi ha spinto a seguire questa strada. Mi sonosempre buttato a capofitto nelle iniziative e nelle problematiche di questo tipo. Da un primo entusiasmo sentimentale e sempliciotto per la missione ho cercato di scoprire e di valorizzare i motivi piu' profondi. In definitiva penso che questa sia la mia strada e mi sento gia' incamminato nella vita religiosa".
Cosi', nel settembre del '78, eccolo ad Ancona per il noviziato. Un anno importante di studio, approfondimento, conoscenza, riflessione. Ma anche di impegno concreto di carita', animazione, catechesi. Una sorta di prova generale, prima dei voti, del sacerdozio, della missione. Tore, ventiduenne, si dimostra all'altezza dell'impegno e il maestro dei novizi, presentandolo per l'ammissione alla famiglia saveriana scrivera' che "e' un giovane generoso, attivo, intraprendente, portato per la meccanica. Sa organizzare e distribuire il proprio tempo con responsabilita', secondo i vari interessi spirituali, intellettuali e di attivita' manuale. Utile alla vita comunitaria, dove con intuito particolare sa assumere tanti lavori nascosti e umili che rendono piu' spedito l'andamento e la manutenzione della casa".
E allora, il 1° settembre 1979,nella parrocchia anconetana di Cristo Divin Lavoratore, Salvatore Deiana fa la prima professione dei voti religiosi, entrando a far parte della congregazione fondata a Parma dal vescovo Guido Maria Conforti alla fine dell'Ottocento, il cui modello e' san Francesco Saverio, apostolo d'Oriente. Poi ritorna nella Sardegna amatissima, nella casa saveriana di Macomer per l'anno di assistenza ai giovani studenti.
A settembre 1981 arriva nella casa madre di Parma per finire la teologia. E allenarsi alla missione: collabora con la parrocchia di Ognissanti e un confratello ricorda: "Tore era veramente contento di essere prete e missionario ed era sempre un vulcano di iniziative. Insieme preparammo incontri, liturgie, campi scuola e recitals". I giovani di quella parrocchia gli resteranno legati anche quando andra' in missione, dalla parrocchia parmigiana gli giungeranno spesso lettere e aiuti. Intanto lui si diverte con i motori, la sua passione, ha anche la patente per i camion. Una vita col piede sull'acceleratore, sempre. "Si dedica con amore alla comunita' e manifesta un genuino senso di appartenenza. E' bene accetto e gradito ai compagni. Guidato dalla fede e' spiritualmente impegnato nel vivere i voti religiosi. Dotato di un sano realismo, sensibilita', serenita', sa cogliere le situazioni di sofferenza altrui ed e' profondamente onesto". Cosi' definisce Salvatore Deiana il rettore nella presentazione per l'ammissione al diaconato. E diacono lo diventa il 21 febbraio 1982, insieme a nove compagni, per le mani del vescovo saveriano monsignor Catarzi, nella cappella della casa madre a Parma. Ci sono i suoi genitori e parenti e amici dalla Sardegna che hanno portato pane fatto in casa e dolci tipici dell'isola. Aveva scritto sull'invito alla cerimonia: "Da tanti anni ero orientato alla vita missionaria, oggi questa scelta diviene piu' concreta e assume degli impegni ben precisi. Domenica 21 febbraio, nella cappella del nostro Istituto, saro' ordinato diacono. E' l'ultimo gradino prima del sacerdozio! Essere diacono significa mettersi al servizio dei fratelli e in special modo dei piu' bisognosi. Sono contento di questa scelta! Sono inoltre convinto che da solo non riuscirei a seguire fedelmente questa strada. E' troppo grande lo scarto tra il dono che ricevo e la poverta' della mia persona".

Il tesoro di Ardauli
Diacono: lo fa a Parma e, nelle vacanze estive, in Sardegna, cosi' puo' battezzare le due prime nipotine Marta e Chiara, figlie di sua sorella Antonietta. Ha ventisei anni ed e' a un passo dal sacerdozio. L'ordinazione avviene il 26 settembre 1982 nel palazzetto dello sport di Parma. Tore e i suoi nove compagni diventano preti saveriani per le mani del nuovo vescovo della citta', successore del Conforti, monsignor Benito Cocchi. Piu' di cento i concelebranti, saveriani e diocesani. Tremila le persone che assistono, parenti e amici dei nuovi sacerdoti.
Salvatore Deiana ha scritto poco prima: "Nel giorno della mia ordinazione sacerdotale chiedero' al Signore la grazia della fedelta' alla mia vocazione e di poter sempre sprigionare l'entusiasmo dei primi giorni della mia risposta al Signore".
Il nuovo prete torna nella sua Sardegna per celebrarvi la sua prima messa solenne. Il 3 ottobre tutta Ardauli festeggia il suo figlio prete. Canti in dialetto, costumi tipici, piatti e tradizioni isolane per una festa indimenticabile. Il predicatore e' un altro saveriano sardo, padre Mario Mula, che dice di padre Salvatore Deiana:"Tore si porta sulle spalle, sono sicuro, la fede forte ed essenziale dei suoi antenati, dei suoi padri, la fede sacrificata e provata dei suoi genitori". Poi, rivolto a papa' e mamma e ai parenti di Tore, aggiunge: "Voi per primi tziu Damiano e tzia Lina, maestri e artefici con la parola, ma soprattutto con l'esempio, di questo essere meraviglioso che poi il Signore ha riservato per se'. Voi sorelle e cognati, voi parenti e amici, voi tutti che formate la comunita' di Ardauli, siete voi da festeggiare! Fortunato - dice Gesu' - chi sa tirar fuori dal suo tesoro cose nuove. Una cosa nuova e' questa! Fortunata la famiglia e la comunita' che sanno tirar fuori simili tesori!".
Dopo i festeggiamenti nella sua terra, padre Salvatore Deiana torna a Parma per l'ultimo anno di teologia, e per completare la formazione missionaria necessaria ad un partente per una terra nuova e sconosciuta, dove annunciare il Vangelo della salvezza, secondo il mandato stesso di Gesu': andate, predicate, battezzate. E' cio' che Tore ha inteso fare, fin dai banchi della scuola elementare. E ormai non manca molto.
"La partenza - sta scritto nelle costituzioni saveriane - vissuta come avvenimento pasquale di una vita che si abbandona e di una nuova vita che comincia, diventa per se stessa parte del mistero di salvezza per il mondo". Si', occorre partire, lasciare terra, casa, famiglia, amici, certezze. Andare via, per sempre. Non e' facile. Non lo e' nemmeno per Tore, che pure quel giorno ha sognato a lungo. E il giorno arriva: il 16 ottobre 1983. In quella stessa data, cinque anni prima, anche a un altro e' toccato di partire per non tornare piu'. Il 16ottobre 1978 Karol Wojtyla ha lasciato per sempre la sua Polonia amatissima per sedere sul seggio di Pietro, a Roma, e di li' guidare la Chiesa nel terzo millennio cristiano. Adesso tocca a Tore. Ha ventisette anni, e' pieno di gioia, perche' finalmente realizza il suo sogno missionario. Ma sente il dolore del distacco, la nostalgia, il peso dei ricordi, l'assenza dei volti cari che non vedra' piu'. Lo accompagnano alla stazione di Abbasanta il papa' e la mamma, una zia materna e gli Zago, genitori del suo amico Giorgio. Padre Salvatore Deiana parte per il Brasile, parte per la missione che Dio ha in mente per lui fin dall'inizio dei tempi. Parte per l'ultima volta dalla sua Sardegna.

Sul Rio delle Amazzoni
Scrive Arturo Francesconi nel suo libro Transamazzonica km 23 (EMI, 1992), un'affettuosa biografia di un amico: "Credo sia facile immaginare cosa provo' Tore in quel giorno di viaggio; ed e' giusto pensare anche al coraggio dei suoi familiari: stavolta non dovevano lasciar partire il loro figlio per il continente, bensi' per l'Amazzonia, ad una distanza che, nella loro fantasia, era difficilmente calcolabile. Papa' e mamma saluteranno per l'ultima volta il loro amato figlio. E' vero, piu' volte lui telefonera' dal Brasile, ma non sara' la stessa cosa".
Tore si ferma ancora un po' a Parma, dove saluta i confratelli, la parrocchia in cui ha lavorato, la sorella Luisella che e' li' per studiare da infermiera, poi, il 26 ottobre, prende l'aereo per il Brasile. La sua prima destinazione e' la citta' di Bele'm, un milione e mezzo di abitanti, capitale del Para', nel nord, uno dei 24 stati in cui e' suddiviso l'immenso Brasile. Li' c'e' il piu' grande fiume del mondo, il Rio delle Amazzoni, quasi otto milioni di chilometri quadrati di superficie. Tore e' sopraffatto dal caldo equatoriale, ma presto si abituera'. Si trattiene perqualche tempo di ambientamento nella casa saveriana di Bele'm, e della metropoli conosce anche la faccia nascosta: poverta', violenza, degrado. Poi lo destinano nella citta' di Bujaru, dove restera' quasi sei mesi.
Da li' scrive a casa per raccontare la sua nuova attivita': "Tanti di voi si saranno chiesti com'e' la mia vita e cosa faccio di bello o di brutto. Ebbene, mi trovo in una piccola cittadina di circa 3.000 abitanti, sulla riva di un grande fiume: il Guama'. Una chiesetta stile europeo troneggia nella piazza centrale, attorniata da grandi manghi di un colore verde cupo. Le strade sono tutte in terra battuta e le casette, quasi tutte in legno, si perdono in mezzo ai campi e ai cocco. Per ora vivo in una piccola comunita' composta di due padri, uno spagnolo ed un brasiliano, e di tre missionarie del sud. E' una piccola comunita' internazionale. La mia vita trascorre normalmente dietro la grande scrivania della mia stanza gia' carica di libri, di grammatiche e dizionari: mi sono buttato con impegno nella lingua e, dopo quasi tre mesi, comprendo tutto e posso prendermi il lusso di fare le prime omelie ed i primi incontri con una certa disinvoltura. Normalmente studio sette o otto ore al giorno e quando voglio riposarmi vado alla ricerca dei Topolino e Paperone scritti in portoghese!". Parla dei primi lavori manuali: "In questi giorni prima di riprendere i miei studi dipronuncia ho deciso di riposare un po'. Ho preso pala e piccu in mano e sto lavorando nel nostro piccolo orto, gia' pieno di banani, manghi e cocco. Sto delimitando delle aiuole con vecchie tegole in modo da piantare un po' di verdura. E' interessante perche' tutto cresce molto in fretta, da un giorno all'altro".
Poi confessa simpaticamente: "Ormai mi sono abituato a questo tipo di vita! Mi sono abituato ad avere la luce elettrica solo per quattro ore al giorno e ad usare la lampada ad olio quando si va fuori. Sono contento di questa vita, nonostante l'idea dell'Italia ritorni spesso nella mia cabessa". Ma non ha molto tempo per pensarci. Ci sono piu' di 150 comunita' di base da visitare, aiutare, incoraggiare. "La nostra parrocchia abbraccia un raggio di circa cinquanta chilometri ed il lavoro non manca. Le piccole comunita' sono disperse tra le anse dei fiumi e nel mezzo della foresta. Spesso si viaggia in barca, in jeep, in autostop (!) sopra camion gia' stracarichi di gente e altre volte a piedi. Basta avere un piccolo zaino sulle spalle con un'amaca per dormire ed un cambio di biancheria. Ultimamente sono stato con il padre Santiago a visitare alcune comunita'. Ho condiviso un po' la vita quotidiana della gente. Normalmente e' gente molto povera che coltiva un piccolo pezzetto di terra, vive in casette di legno e fango. Le famiglie spesso sono numerose ed il cibo non e' sempre sufficiente. Il nostro lavoro consiste nell'unire i gruppi e nell'organizzare le comunita' a tutti i livelli. Per questo la nostra casa sembra un negozio pieno di gente che va e che viene. E' interessante comunque notare che, nonostante la poverta', la gente vive seriamente il cristianesimo".

Come loro, i kaiapò
Ma e' gia' tempo di ripartire. Ad aprile dell'84 lo informano che dovra' andare nello Xingu. E lui scrive: "Tra un mese saro' gia' nella mia nuova residenza. Ho ricevuto proprio in questi giorni la mia destinazione, dovro' ricominciare completamente da zero. Sono uno dei pochifortunati che possono lavorare nello Xingu, unica zona di pastorale indigenista, con la prospettiva, prima o poi, di potermi inserire nella pastorale con gli indios superstiti. Sono contento di questo, anche se la cosa mi impressiona un poco: le distanze sono enormi e si e' un po' tagliati fuori dai grandi centri". Il 7 maggio 1984, dunque, Tore sale su un altro aereo e lascia Bujaru per lo Xingu, una prelazia (diocesi) grande come tutta l'Italia, con venti padri e una quarantina di suore. Il Vangelo si annuncia lungo il fiume Xingu e nei villaggi toccati dalla Transamazzonica, tremila chilometri di strada attraverso la foresta. I saveriani sono presso il fiume e hanno una parrocchia nella citta' di Altamira, gli altri missionari lavorano lungo la Transamazzonica e nelle due altre parrocchie.
Tore dapprima va a Porto de Moz, 14 ore di barca da Altamira sullo Xingu. Ma poi, il 31 maggio, gli viene affidata la parrocchia di Vila Brasilia, in Altamira, e la cura degli indios, come lui stesso aveva voluto. Scrive di nuovo: "Faccio parte di una e'quipe di tre padri, padre Renato Trevisan, padre Salvatore Saiu ed io. La nostra residenza e' in citta' e seguiamo una parrocchia di periferia (Vila Brasilia) con casette vecchie ed una chiesa che praticamente e' una casetta in legno. Il nostro lavoro specifico e' pero' con gli indios, che in linea d'aria distano piu' di quattrocento chilometri, se si viaggia in aereo, e piu' di ottocento, se si viaggia in barca. Sono contento di questa soluzione, e' un lavoro nuovo iniziato da poco".
Padre Tore Deiana adesso e' davvero in prima linea, come ha sempre desiderato. Parte subito per Kikretum, uno dei villaggi degli indios Kaiapo'. Ma non in aereo. Ecco il suo racconto: "Sono partito con padre Trevisan per ritornare tra gli indios. Penso che diventeremo famosi. Siamo i primi finora a partire da Altamira e raggiungere gli indios senza usare l'aereo. Siamo andati in pullman sino a Tucuma' (tre giorni e tre notti di viaggio) poi siamo arrivati dopo un giorno di camion a Kikretum. Anch'io mi sono alternato alla guida con l'autista. Arrivati abbiamo sistemato la nostra casa, quella che gli indios avevano iniziato. E' una bella casa parrocchiale fatta in tronchi ed in fango, con il tetto in paglia. E' facile da restaurare: basta impastare fango e tappare buchi. Abbiamo lavorato da cani. Fatto porte, finestre, pavimento e piccoli armadi in legno. Tutto comincia a funzionare e gli indios sono sempre in casa a vedere e rivedere le solite fotografie o sfogliare i nostri libri in cerca di figure. Il pranzo e la cena e' a base di riso e di fagioli. Ci arrivano anche patate dolci, banane e farina di mandioca. Anche i pesci e la caccia sono cose normali".

Solo l’amaca
Il piccolo missionario sardo parla subito al cuore degli indios, fuma la pipa insieme a loro, canta, ascolta, lavora. Condivide tutto, insomma. E loro gli mostrano amicizia e gratitudine dipingendogli il corpo con i colori ricavati dalle erbe selvatiche. Un gesto riservato agli amici, anzi ai fratelli. Una straordinaria, intensa vicenda che padre Renato Trevisan riassume cosi': "Per due mesi e' con me a Kikretum, tra gli indios Kaiapo'.
La sua presenza coincide con il nostro passaggio da una capanna semiabbandonata, eccetto che da topi e da pipistrelli, ad una piu' grande, costruita dagli stessi indios per noi. Lui si incarica delle opere di sistemazione, visto che abbiamosolo l'amaca per riposare la notte. Tore misura, sega e inchioda mentre io gli passo i chiodi, il martello e vado in cerca di cio' che manca. Gli indios l'osservano mentre lavora, quando si ferma per farsi quella strana piccola sigaretta di trinciato. E' loro simpatico perche' sorride, perche' offre loro la stessa sigaretta che ha appena finito di fare per se', anche tre, quattro volte se la prepara invano". "Dov'e' padre Tore? Padre Tore e' ottimo", dicono di lui gli indios, conquistati dalla semplicita', dalla bonta' e dalla condivisione di quel piccolo, giovane sardo che regala sigarette fatte a mano a tutti.
Va e viene altre volte da Altamira a Kikretum, 1.100 chilometri di una strada infernale. Guida anche il camion, perche' l'autista rifiuta di buttarsi in quell'impresa disperata, quando la pioggia e il fango rendono impossibile il viaggio. Lui va, allegro e incosciente, e alla fine dice al confratello: "Hai visto che ce l'ho fatta?". Una frase che ripete spesso, a suggellare tutte le sue piccole vittorie nelle battaglie quotidiane. Vorrebbe stare sempre tra gli indios. Ma presto si accorge di non farcela piu', troppi chilometri e troppa fatica. E allora, da novembre del 1984, restera' in parrocchia ad Altamira, tra gli indios continueranno padre Trevisan e padre Saiu.
A quei tempi Altamira ha circa sessantamila abitanti. Molti arrivano dal sud: mandati dal governo a popolare l'Amazzonia, nel nord del Paese, aprendo per loro nella foresta la grande strada Transamazzonica, con conseguente dispersione degli indios che li' vivevano. Ma il clima del nord e' molto peggio di quello del sud, si ammalano emuoiono per malaria e punture di insetti, non hanno ospedali, scuole, strade. Molti se ne vanno, parecchi finiscono, appunto, ad Altamira.
Scrivono allora i vescovi brasiliani: "In luogo delle trasformazioni solennemente promesse, l'immobilismo e l'indecisione nel piano sociale, politico ed economico hanno finito per generare incertezza e perplessita' aggravando i problemi, tra i quali vogliamo sottolineare: la spaventosa miseria che e' presente in tutto il Paese e forma un flusso migratorio che gonfia tanto le citta' quanto le nuove frontiere agricole; la politica salariale che mantiene nel Paese uno dei salari piu' bassi del mondo; la crescente violenza contro contadini, posseiros, i senza terra e gli indios che lottano per la terra".
Contro questa situazione lottano da sempre molti vescovi del Brasile, tra i quali il famoso pastore di Olinda e Recife dom Helder Camara, che rischia la pelle per le sue prese di posizione in favore dei poveri e degli oppressi. Contro questa stessa situazione di poverta', ingiustizia e violenza si prepara a combattere anche padre Salvatore Deiana, il piccolo Tore che arriva dalla Sardegna, allegro e generoso, armato soltanto di sorrisi aperti, baffi neri, sigarette fatte a mano.

Uno per trentamila
Il 2 ottobre ha scritto alla sorella e al cognato: "Carissimi Natalina e Giuseppe, e' passato molto tempo dall'ultima lettera, ma a dir la verita' sono stufo di aver la penna in mano, sempre a scrivere e a preparare incontri di tutti i tipi. Pensate che persino nel collegio (sarebbe il nostro liceo) mi stanno chiedendo qualche lezione di psicologia e sociologia. Il lavoro comunque e' troppo e penso gia' di calmarmi. Solo nella parrocchia ci sarebbe da lavorare per tre persone senza interruzione. Sono gia' dimagrito abbastanza (solo 55 chilogrammi) e proprio oggi ho iniziato la cura contro i vermi, devo averne la pancia piena. Quando poi sono un po' nervoso fumo come un turco, i tabacchi piu' forti, cioe' quelli che costano meno. Proprio ieriho incontrato due giovani italiani (siciliani) in viaggio di nozze e li ho invitati a visitare le zone peggiori della mia parrocchia. Sono rimasti stupefatti. Perche' anche voi non pensate di fare un viaggio il prossimo anno? Da poco tempo ho terminato la mia prima esperienza con gli indios e tra quindici giorni partiro' nuovamente. E' difficile pero' passare sempre dalla citta' al mondo primitivo, la cosa peggiore sono i viaggi. Poi mi sono fermato con padre Renato altri 15 giorni vivendo in un villaggio. Caccia, pesca, campagna e lavoretti vari per poter mangiare. Il rientro dalla citta' piu' vicina e' stato in pullman. Tre giorni di viaggio fino ad Altamira. Fango, enormi buchi ed il pullman che ogni tanto rimaneva dentro il fango che arrivava a meta'. In ogni caso e' finito bene".
Ma adesso basta scorribande. Nella grande parrocchia di Altamira chiamata Vila Brasilia c'e' lavoro per tre, dice Tore alla sorella. E lui e' solo. Ha ventotto anni. Deve occuparsi di una comunita' di quasi trentamila abitanti, piu' la gente di passaggio, in cerca di lavoro e fortuna. Otto mesi dopo puo' gia' dire: "Dopo questi mesi di osservazione mi sembra di aver capito come stanno le cose e mi sto organizzando. Sto facendo una specie di censimento per vedere quante persone abitano nella parrocchia, che tipo di lavoro hanno, e quanti bambini non vanno a scuola. I giovani mi aiutano molto: adesso sto formando un gruppo biblico di adulti ed un gruppo di coppie che dovrebbero animare la comunita'; ho gia' formato un gruppo incaricato dell'economia, cosi' io avro' il tempo di dedicarmi a cose piu' importanti. Dopo questi otto mesi di esperienza nella parrocchia ci sono gia' cinque gruppi di giovani: hol'impressione che stiamo camminando molto bene".

Due padri per la gioventù
A settembre 1985 arriva, invitato da Tore, un confratello in aiuto: padre Matteo Antonello, anch'egli giovane ed entusiasta. Ricorda: "Al mio arrivo mi porto' a visitare la parrocchia. Cerco' di ambientarmi nella nuova realta' e di farmi partecipe di alcuni problemi e difficolta': la questione dei giovani, la preparazione ai battesimi, al matrimonio. La casetta in cui viveva era una vecchia baracca di fango con il tetto di tavole. La gente andava la' per parlare con il padre, soprattutto i giovani". Due padri che si prendono cura della gioventu', scrivono canti liturgici, piegano la schiena nei lavori manuali. Tore, tipico carattere sardo, a volte si impunta, testardo, creando qualche incomprensione, ma gli passa subito, e si riparte. Adesso ha un progetto: costruire la nuova chiesa parrocchiale, quella che c'e' nonbasta assolutamente, se ne parla gia' da tempo, ma lui decide di agire. Inventa la campagna del mattone, poi quella della decima parte, infine Io ho collaborato per la raccolta di fondi. Sollecita e ottiene offerte anche dalla sua parrocchia di Ardauli in diverse occasioni. Ma non vedra' la chiesa nuova. Al suo funerale sara' ancora in costruzione. Lui, intanto, lavora e scrive in Italia. Ecco un brano di una lettera del 19 marzo 1985 all'amico Giorgio Zago e alla moglie: "La mia parrocchia, quasi trentamila abitanti, sta funzionando che e' una meraviglia. Le persone che partecipano alla catechesi e ai gruppi sono piu' di un migliaio e sempre in continua espansione. Anche ieri ho fatto un incontro con 130 giovani tutti della parrocchia. Stiamo formando dei leaders che assumano la vita della comunita'. Molte volte rientro a casa molto tardi e spesso devo continuare a studiare fino alle due del mattino per preparare gli incontri e fare i piani di lavoro. Qui la gente e' disponibile, bisogna solo organizzarla e starci dietro. Abbiamo anche organizzato in citta' (quattro parrocchie) delle piccole e'quipes che portano avanti le cose. Tra poco, queste sono le premesse, dovrebbe nascere un centro di pastorale per tutta la Prelazia. Siamo in pochi a sostenere questo ma stiamo andando avanti e speriamo di riuscirci. In tutti i casi e' un continuo fermento di iniziative e cose nuove da organizzare. Io ci sono dentro fino al collo e voglio continuare. Anche la pastorale dei giovani della quale sono il responsabile sta cominciando a funzionare. Potrei continuare a scrivere tante di queste cose. Sono contento perche' mi sembra che questa Chiesa giovane e senza esperienza stia facendo passi da gigante in tutti i sensi, i grandi del Vaticano possono pensare quello che vogliono, ma vorrei vedere qualcuno di loro passar quello che si passa qui e fare la vita da vagabondi che facciamo".

Non ci sono più sedie: tutto esaurito!
Tre mesi dopo informa la sorella Antonietta e suo marito: "La Pasqua e' stato un periodo molto duro,specialmente la preparazione. Tutto pero' e' andato bene e adesso mi sto riprendendo dalla stanchezza. Tutti mi dicono che sto lavorando troppo, ma se non si lavora adesso che si e' giovani quando e' che si lavora? Riconosco che sto dando il massimo, ma anche le soddisfazioni sono enormi. Ultimamente ho parlato col vescovo e anche lui mi ha detto di andare avanti cosi' e di non lasciarmi condizionare da nessuno perche' sto lavorando bene e la gente finora ha fatto solo apprezzamenti positivi. Tra poco cominceremo a costruire la nuova chiesa. Abbiamo gia' il progetto! La chiesetta che abbiamo e' piccola e anche i locali, non ci sta piu' nessuno. Sabato scorso ho cercato una sedia, e niente, erano tutte occupate in tutti i saloni. Le attivita' sono tante che nemmeno io riesco a seguirle tutte. Il giorno di Pasqua per esempio ho celebrato la messa alle 7,30 di mattina. Dopo la messa c'erano 25 battesimi e subito dopo la manifestazione con cartelloni, canti e disegni dei bambini (quasi 400) nelle vie del nostro rione. Alla sera siamo stati col camion carico di gioventu' al manicomio per fare la Pasqua assieme agli ammalati e poi un incontro e alla notte nuovamente la messa. Adesso ci hanno regalato un vecchio salone che abbiamo gia' dipinto. Li' faremo gli incontri con tutti i coordinatori e penso di mettere una scrivania in una piccola sala per rimanere li' in mezzo alla gente, sempre a disposizione. Anche la Settimana Santa e' statauno spettacolo. La gente arrivava fino all'altare e io quasi non mi potevo muovere. La messa della vigilia e' stata all'aperto. Qui purtroppo abbiamo molti problemi. I ricchi stanno sfruttando sempre piu' i poveri. Abbiamo preso posizione varie volte e fatto note di protesta. La cosa e' molto calda! Spesso arrivano minacce anche al vescovo ma la gente sta con noi ed e' interessante vedere la gente che sta camminando e rivendicando i suoi diritti".
Il 3 dicembre 1985 le Missionarie di Maria, chiamate sorelle saveriane perche' fondate dal saveriano Giacomo Spangolo, aprono una casa ad Oristano in Sardegna. E Tore, felice, manda loro una lettera, da' notizie e ne richiede: "Qui le cose vanno bene. Il lavoro pastorale e' ottimo. C'e' molto da fare ma mi sento soddisfatto e pieno di entusiasmo. L'ultima esperienza? La volete proprio sapere? Non e' molto mistica ma... mi sto grattando da pazzi. Sono andato oggi a visitare alcune famiglie e tra una visita e l'altra devo aver preso le pulci. Sono gli inconvenienti della vita missionaria. Anche la salute e' buona. Dopo aver passato un periodo nero con ameba e vermicelli vari, tutto e' ritornato al normale. Mi piacerebbe sapere qualcosa del vostro lavoro e mantenere i contatti. Accettate? Fra tre anni quando tornero' in ferie potrete sfruttarmi a piacimento!". Non potra' mantenere questa promessa.

Rettore del seminario
E' bravo, Tore: tanto che all'inizio dell'86 gli chiedono di fare anche il rettore del seminario di Altamira. Non ha nemmeno trent'anni e un sacco di lavoro in parrocchia, ma il vescovo non ci sente e gli affida il nuovo compito. Lui dice: "Il problema per cosi' dire e' che il lavoro sta aumentando e gli incarichi diventano sempre piu' difficili. Dopo l'ultimo incontro con tutti i padri della Prelazia mi e' stato affibbiato anche il seminario; cosi' sono diventato rettore. Ho tenuto duro fino alla fine; non volevo proprio accettare. Gia' il vescovo me l'aveva chiesto. I giovani del seminario domandarono un incontro per tastarmi il polso, ed il vecchio rettore mi prometteva mari e monti pur di farmi accettare. Non avevo alternative, ma neppure potevo lasciare la parrocchia dove lavoravo. Il lavoro e' gia' ben avviato, cosi' sono rimasto con le due cose. Proprio oggi ho terminato il trasloco e a dir la verita' mi trovo ancora a disagio nel grande studio ben moderno e pieno di scaffali". Informa del nuovo incarico anche la sorella Luisella: "Oltre alla parrocchia ho dovuto assumere la direzione del seminario. Dovrei essere, come si dice in italiano, il rettore del seminario. Ho cercato fino alla fine di svignarmela... ma non c'e' stato verso. Ho detto che sono molto giovane, che sono straniero e che gia' avevo molto lavoro, ma niente da fare. Per dirla in breve, mi ritrovo in seminario, seduto su una sedia girevole, con due telefoni di lato e grandi vetrate piene di libri. Ho 16 giovani dai 15 ai 24 anni. Alcuni gia' nelle superiori e altri che arrivano dall'interno cercando di superare le scuole medie e facendo due anni in uno. Non ho voluto lasciare la parrocchia dove mi ritrovo perfettamente a mio agio e mi sto realizzando bene. Vedro' di fare del mio meglio per non esaurirmi prima della vecchiaia". Parroco e rettore a trent'anni: bella accoppiata per un missionario sardo in Brasile. Ma lui non ci pensa su troppo e lavora. Vuole che il seminario sia una famiglia. Preghiera, studio, lavoro, responsabilita', svago in un clima di condivisione fraterna. Inventa la cassa comune dei seminaristi. E da' l'esempio dell'impegno, della fatica: "Ci diceva sempre che un seminarista non dovrebbe mai perdere tempo, perche' oggi non e' facile essere padre, sacerdote", ricorda uno studente di allora. Lui tiene il piede sull'acceleratore: fa anche l'animatore dei giovani e il redattore del giornale della diocesi. Sempre di piu'. Tanto che, negli ultimi tempi, da' qualche segno di resa, parla di rinunciare alla parrocchia.

Lettere di commiato
Lo scrive anche ai genitori il 6 agosto 1987: "La vita qui corre come al solito. Lavoro e sempre lavoro, ho passato un periodo di stanchezza piu' forte del solito. Quattro anni di missione gia' si fanno sentire. Ultimamente ci siamo incontrati in Altamira con tutti i saveriani dello Xingu. Padre Salvatore Saiu ha preparato delle belle maccheronate e non e' mancata la carne arrosto e la birra a volonta'. Abbiamo fatto insieme il nostro ritiro e alla fine siamo tutti tornati ai posti di battaglia. Abbiamo rivisto i nostri impegni ed i nostri lavori, a tutti sembrava opportuno che Matteo assumesse di piu' la parrocchia. Io infatti ne avevo fin troppo. Pian piano rimarro' piu' libero per altri tipi di lavoro come gli incontri con i giovani ed il lavoro del giornale o di libretti popolari. Adesso vedremo di continuare facendo i programmi insieme e dividendo di piu' il lavoro".
Ottobre 1987: Tore scrive diverse lettere, quasi presagio dicommiato. Ancora ai genitori, il 10: "Ultimamente sono stato molto occupato. Ho iniziato e terminato un libretto popolare per i giovani e la loro organizzazione. Questo porta via molto tempo ed energie. Dopo alcuni giorni sono andato nella Transamazzonica per tre giorni. Ho fatto da assistente ad un incontro di giovani di quella parrocchia. Erano piu' di 90 giovani che arrivavano da tutte le stradette della foresta, erano giovani molto semplici e figli di coloni. Quando sono rientrato ho partecipato ad un altro incontro di formazione sociale e politica. Infine ho dovuto cominciare il giornalino della Prelazia, con una tiratura di 1.500 copie e gia' con 36 pagine. Tutto questo lavoro porta via piu' di una settimana. Pian piano sto lasciando da parte la vita della parrocchia per assumere queste cose. Se continua di questo passo viaggero' abbastanza. Mi stanno chiedendo sempre piu' incontri con i giovani e la preparazione di materiale per lo studio e la formazione. Sto sempre conoscendo persone nuove e simpatiche e nuove comunita' sparse per di qua e per di la'. Tutto questo mi piace e mi sento realizzato in pieno. Spero solo di poter continuare per dare ancora altri 5 anni in questi splendidi posti. Pero', a dire il vero, mi sento un poco stanco e dovro' prendermi qualche giorno per riposare".

“Forza Paris”
Il 16 ottobre, due lettere. Una a padri e studenti della casa di Macomer, dove anch'egli ha studiato: "Il mese di ottobre qui in Brasile e' dedicato alle missioni e forse e' questo il motivo che mi ha spinto a scrivere a tutti voi che vi preparate alla vita missionaria. Vita difficile? Piena di problemi o di rinunce? Senza dubbio. Ma anche una vita interessante che mi entusiasma e mi rallegra.Bisognerebbe sperimentare cosa significa viaggiare ore e ore in barca o in macchina, entrare in stradette che quasi non esistono e li' incontrare una comunita' che aspetta l'incontro o la celebrazione. Interessante trovare persone semplici, coloni, pescatori e donne impegnate nelle proprie comunita'. Gente che crede davvero nella forza della Parola di Dio e che organizza momenti di lavoro comunitario, momenti di preghiera e di incontri.
La nostra diocesi e' piu' grande della intera Italia, non ci sono le grandi autostrade che voi conoscete, non abbiamo tutti i mezzi a disposizione e siamo solo in 16 padri. Aspettiamo per questo tanti giovani come voi, pieni di buona volonta' e col desiderio di lavorare nelle missioni. Il mio lavoro e' molto semplice. Nei primi tempi ho lavorato con gli indios, visitando le tribu' sperdute in mezzo alla foresta e ai tanti fiumi.
Dopo alcuni mesi mi e' stato chiesto di prendere una parrocchia della periferia della citta' che non aveva padri a disposizione. Abbiamo tentato di organizzarci e di andare avanti. Conoscendo meglio la gente brasiliana e la lingua, ho dovuto assumere anche il seminario della citta'. Vivo con undici giovani che vanno dai 18 ai 29 anni. Quasi tutti stanno terminando le superiori e si preparano ad entrare nella teologia. La vita e' molto semplice: studio, formazione e lavoro manuale. Al sabato e alla domenica tutti lavorano nelle parrocchie dando una mano ai catechisti, ai giovani e nelle varie attivita'. A tutto questo bisogna aggiungere il lavoro con i giovani della Prelazia. Stiamo tentando di organizzarli, di modo che prendano in mano la loro storia e siano i principali annunciatori e animatori delle piccole comunita'. Questo implica una serie di incontri, dibattiti e anche l'elaborazione di materiale nostro. Alle volte si rientra a casa stanchi morti.
Ci si dimentica anche di cenare ma sempre mi rallegra il fatto di fare qualcosa di utile per gli altri". Non mancano frasi in dialetto sardo: la lettera termina con le parole forza paris, che significano avanti insieme. Un bel manifesto missionario, ma anche una sorta di testamento spirituale, un promemoria, un passaggio di testimone. A fratel Guglielmo Saderi, missionario saveriano sardo, e' indirizzata la seconda lettera del 16 ottobre: "Qui siamo sempre al lavoro e pieni fino al collo. La mia salute va bene e da molto tempo non ho piu' avuto problemi di amebe o vermi. Quello che fa soffrire un poco e' il caldo terribile e la polvere delle strade. Ma la vita missionaria presuppone anche questi piccoli disagi. Sto passando un periodo di stanchezza dovuto forse ai troppi impegni. Per un certo periodo sono rimasto da solo qui in citta', con tre parrocchie sulle spalle e alle volte attendendo le comunita' della Transamazzonica. A questo si aggiungeva il lavoro in parrocchia, nel seminario e col giornale della Prelazia. Riconosco che era molto davvero.
La vita politica del Brasile continua di peggio in peggio. Non esiste un minimo di programma, i prezzi salgono continuamente e la gente si ritrova con gli stipendi di fame. Ci sono delle lotte ben grandi tra i piccoli e i grandi che continuano a sfruttare i poveri e a ingrandire le loro proprieta'. I problemi sono tanti che alle volte non si sa proprio come fare e come agire. Ma le nostre comunita' continuano con lo stesso ritmo e con una fede molto grande. Forza paris (avanti insieme)".

Come se dormisse
Quel 16 ottobre 1987 a Brasil Novo, 46 chilometri da Altamira, lungo la Transamazzonica, un gruppo di contadini protesta davanti a una sede governativa. Il vescovo dello Xingu dom Erwin Krautler, sempre dalla parte dei poveri, piu' volte minacciato, decide di andare a dir messa tra loro. Si porta dietro anche Tore, padre Matteo e l'animatrice laica Sonia. La Transamazzonica - spiega padre Savio Corinaldesi, provinciale dei Saveriani del Brasile - "in quelperiodo di scarse piogge e' coperta da un sottile strato di polvere che, al passaggio delle macchine, si alza nell'aria formando una densa nube che toglie per alcuni minuti la visibilita'". Partono dunque i quattro, alla guida c'e' il vescovo.
Tutto bene fino al chilometro 23. C'e' una salita. La macchina incrocia un pulmino in una nuvola di polvere. Dietro, un camion cerca di sorpassare e si trova di fronte l'auto: scontro frontale e violentissimo. I soccorritori estraggono i passeggeri. Tore ha la testa appoggiata sul cruscotto, come se dormisse. "Battei sulla sua spalla per tre volte e lo chiamai per nome. Ma egli non diede nessun segno di vita. La sua morte fu istantanea", racconta il vescovo. Lui, padre Matteo e Sonia, feriti, sono portati all'ospedale.
Padre Salvatore Deiana si ferma al chilometro 23. Una vita col piede sull'acceleratore, forse non poteva finire che cosi'. Tristezza, dolore, disperazione per Tore che non c'e' piu'. E una domanda: perche'? E un dubbio: incidente o attentato al vescovo scomodo? Dom Erwin Krautler parlera' di "incidente premeditato", ma non ci sara' nessuna inchiesta. Cosi' finisce l'avventura missionaria di Tore a quattro anni esatti dall'inizio: era partito il 16 ottobre 1983, e' morto il 16 ottobre 1987. Mentre lui moriva, ad Ardauli la mamma diceva al papa': "Quattro anni oggi Salvatore e' partito per il Brasile, tra qualche mese verra' in vacanza". Il corpo di Tore, vestito da prete, quella sera viene portato nella cattedrale di Altamira. La gente sfila per tutta la notte accanto alla bara. I giovani pregano, cantano, piangono, ricordano. Il mattino dopo lo riportano nella sua Vila Brasilia, ma prima i seminaristi lo dirottano per un po' nella cappella del seminario: vogliono salutarlo, loro e lui, soli. Cosi' ripassa per l'ultima volta tra quella miseria, in quel degrado, nelle sofferenze che mille volte aveva percorso col piede sull'acceleratore.
Si celebra la messa funebre nella nuova chiesa in costruzione, il sogno irrealizzato di Tore, in mezzo a sacchi di cemento, mattoni, ponteggi. La inaugura e benedice con il suo stesso sangue, la prima messa e l'ultima di Tore in quel luogo. Altre file interminabili di persone, altre lacrime, altro dolore. Tutti intorno al piccolo missionario sardo che guidava i camion nella foresta, cantava, si faceva da solo le sigarette e aveva sempre fretta. Tutti li' a dirgli grazie, tutti li' a salutarlo, tutti li' a chiedersi perche'.

Il ritorno
La via crucis continua nella casa dei Saveriani in Bele'm: i suoi confratelli, tantissimi, celebrano ancora una messa con lui. All'omelia, ognuno ricorda qualcosa di Tore. Padre Francesco Villa riassume un po' i sentimenti di tutti: "Davvero noi Saveriani dobbiamo sentire in questo momento di possedere un martire in piu': egli ha donato la sua vita a Cristo per il Vangelo. Tore e' morto mentre svolgeva il suo ministero apostolico. Si stava recando a celebrare la messa in mezzo ai poveri contadini. Egli e' morto come Cristo, per amore degli uomini".
Il 20 ottobre la bara di Tore parte in aereo per l'Italia, per la sua Sardegna amatissima. Il 23 e' nella sua casa di Ardauli. Gente, tanta gente anche qui. La mamma, il papa', le sorelle, il dolore e la fede. Il volto di Tore e' visibile attraverso un piccolo vetro. La mamma chiede che non si pianga piu'. Poi parla al figlio, attraverso quel vetro: "Prega, prega il Signore per l'Africa, per il Giappone, per il Brasile, prega per Altamira. Prega il Signore che mandi molte vocazioni al tuo posto in Altamira, ai Saveriani".
Ancora lei guida il rosario, il Miserere, e pronuncia quelle parole straordinarie: "Non capisco, ma benedetto sia il Signore, benedetto sia". Il funerale, tantissima gente, la bara portata a spalle in chiesa dai compagni di leva di Tore. Preghiere, lacrime, canti, baci lanciati verso il figlio di quella terra andato a morire per amore in un'altra terra, lontana e misteriosa. C'e' il vescovo di Oristano Pier Giuliano Tiddia, tanti sacerdoti sardi, tanti Saveriani. Infine, ultimo atto, la sepoltura. Aquelli che passano in casa per dar conforto, papa' e mamma di Tore domandano notizie dei tre feriti nell'incidente e consegnano soldi per Altamira. Dice il papa': "E' un segno per dire che nulla e' cambiato fra noi e la Chiesa dello Xingu. Qualcosa deve essere fatto subito, oggi, per dire che continueremo ad amare e ad aiutare Altamira come se il nostro Salvatore fosse ancora la'".

Il ricordo di Dom Erwin
Il 27 novembre 1988 ad Ardauli arriva dom Erwin Krautler: il vescovo coraggioso e' venuto sulla tomba di Tore, nella sua casa a dir grazie alla sua famiglia, e nella chiesa parrocchiale dove celebra la messa. Confessa che l'hanno colpito quelle parole della mamma: "Non capisco, ma sia benedetto il Signore". Ricorda Tore: "Non si e' mai fermato.
Sembrava che inconsciamente si rendesse conto che il suo tempo di missione fosse breve. In pochi mesi e' conosciuto e amato dai giovani ai quali dedica il meglio del suo lavoro apostolico e il piu' grande affetto missionario. Ascolta i giovani, parla con loro, discute, da' consigli, canta e celebra. Alcuni canti sono fatti da lui ed ancora oggi sono cantati nelle comunita'. Certamente nessuno dimentichera' il dono che Dio gli ha dato di rallegrare ed animare tutti gli incontri". Racconta l'ultimo viaggio, per raggiungere i poveri contadini che reclamano i loro diritti: "Volevamo celebrare una messa insieme a questa gente sacrificata ma resistente, con le mani incallite e con il volto bruciato dal sole. Ma la messa in quel giorno ha avuto un rito differente. Non sono state le parole pronunciate davanti all'altare, il corpo di Gesu' ed il sangue sacramentale presenti sotto le specie del pane e del vino. Il rito crudele e' stato il corpo offerto ed il sangue versato del padre Tore come ultima espressione del suo amore e del suo dono a quella gente che ha voluto servire da quando e' partito dalla Sardegna. Adesso ha mescolato il suo sangue con il sangue del Signore ed il suo ultimo messaggio non e' piu' stato una parola parlata, ma il corpo inclinato dentro i rottami dell'auto, il volto insanguinato. Cosi' padre Tore e'morto. Il Signore ha voluto il sacrificio della vita di chi tanto amava la vita. Non capisco, ma sia benedetto".
Parla anche delle domande senza risposta: "Le circostanze dell'incidente non sono mai state chiarite. Quelli che hanno provocato un dolore ed una sofferenza cosi' grandi sono spariti, sono fuggiti, non si sono piu' visti. I testimoni non sono stati ascoltati. Neppure io che nonostante le gravi ferite in nessun momento ho perso i sensi. E affinche' il macabro servizio fosse completo inventarono false spiegazioni. Una perizia inventata, falsata di proposito, e' stata passata alla stampa. Pilato ancora una volta si e' lavato le mani! Le cause misteriose del disastro sono coperte da un silenzio tombale. La domanda di processo che avrebbe dovuto chiarire i fatti e' stata dimenticata, cestinata.
Mala fede? Complicita'? Soltanto Dio sa tutto e giudichera' i criminali". Nella sua relazione all'Assemblea dei Vescovi del Brasile il vescovo dello Xingu escludera' senza ombra di dubbio l'ipotesi incidente, per parlare di tentato omicidio nei suoi confronti e di omicidio di p. Tore. Forse non avevano previsto che fosse il vescovo alla guida della macchina, il progetto omicida aveva immaginato che il vescovo si servisse dell'autista! Ad Ardauli don Erwin conclude: "Non capisco, ma sia benedetto il Signore!: i cammini del Signore non li intenderemo mai, la croce non la capiamo. La croce non si capisce, la croce si contempla e si accetta. Accettiamo la croce nella quale padre Tore e' morto, accettiamo la croce del dolore, della sofferenza, della tristezza per la quale siamo passati e nella quale siamo stati inchiodati giorni e notti, che sembravano interminabili, perche' Dio ha voluto cosi'. La croce e' sempre frutto di grazia e cammino verso la risurrezione. Non la capiamo, ma sia benedetto il Signore!".
Non capiamo perche' Tore abbia tolto il piede dall'acceleratore tanto presto. Ma a Dio e' bastato cosi'.


Autore:
Renzo Agasso


Fonte:
Santa Sede

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Aggiunto/modificato il 2007-08-18

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