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147 studenti di Garissa Martiri in Kenya

Testimoni

+ Garissa, Kenya, 2 aprile 2015

Nel firmamento della Chiesa brillano le stelle di 147 nuovi martiri. I giovani cristiani vittime dell’Islam, nel Giovedì santo 2015 in Kenya, non devono essere commiserati, ma invidiati, perché hanno avuto la grazia immensa del martirio. Essi sono martiri perché sono stati uccisi in quanto cristiani dai soldati di Allah. Ciò che rende il martire tale non è la morte violenta, ma il fatto che essa sia inflitta in odio alla fede cristiana. Non è la morte che fa il martire, dice sant’Agostino, ma il fatto che la sua sofferenza e la sua morte siano ordinate alla verità. Non tutte le vittime di una persecuzione si possono dire martiri, soltanto quelle che abbiano ricevuto la morte per odio alla fede da parte degli uccisori. I martiri del campus universitario di Garissa, si aggiungono alla innumerevole legione di testimoni della fede massacrati negli ultimi due secoli dai persecutori della Chiesa.



Con 24 ore d'anticipo gli studenti cristiani all’Università di Garissa in Kenya hanno vissuto il loro Venerdì Santo. Un commando di Shabaab somali è penetrato nel campus alle 5,30 del mattino, ha ucciso due guardie di sorveglianza e si è diretto verso i dormitori, armato di mitra.  Gli 815 studenti del campus sono stati buttati giù dai loro letti, radunati in gradi aule e separati secondo la fede di appartenenza: i musulmani che sapevano recitare versetti del Corano sono stati liberati, i cristiani che non sapevano farlo sono stati uccisi o presi in ostaggio. Un primo bilancio ufficiale parla di 147 morti accertati. Circa 500 studenti sono stati rintracciati, ma ne mancano all’appello ancora trecento.
Alcuni testimoni hanno raccontato di cadaveri decapitati: «Abbiamo visto molti corpi senza testa mentre fuggivamo, hanno ucciso molte persone», hanno dichiarato ai media africani. Il portavoce degli Shabaab, gli jihadisti somali, Sheikh Ali Mohamud Rage, ha rivendicato l’attacco alle “North-Eastern Garissa University” con una telefonata all’agenzia Afp nella quale ha confermato che «i musulmani sono stati separati dagli altri e lasciati andare», giustificando il blitz con il fatto che «il Kenya è in guerra con la Somalia e dunque la nostra gente ha la missione di uccidere chiunque è contro gli Shabaab». Gli Shabaab appartengono alla rete di Al Qaeda in Africa Orientale.
«Anche oggi – aveva detto mercoledì scorso Papa Francesco aggiungendo alcune parole a braccio durante l'udienza generale – ci sono tanti uomini e donne, veri martiri che offrono la loro vita con Gesù per confessare la fede, soltanto per quel motivo». Questa sera, la Via Crucis al Colosseo, farà memoria anche del loro sacrificio.

Autore: Andrea Tornielli

 


 

Guardiamoli i volti di questi giovani assassinati in Kenya, lasciamoci interpellare dai loro sguardi.
Il villaggio globale e interconnesso ci ha assuefatto a tante cose: a pesare la gravità di una tragedia dal numero dei morti, o dalla distanza dal luogo dell’evento, a cercare immagini sempre più forti della barbarie umana, a identificarci con leggerezza con persone di cui fino a un attimo prima ignoravamo l’esistenza… Poi a volte, ancora grazie alla rete virtuale, ecco l’irruzione del quotidiano, e i numeri diventano volti, persone come quelle che incontriamo ogni giorno: operai egiziani emigrati per lavoro come ne vediamo sui nostri cantieri, bambini che giocano tra le macerie come noi settant’anni fa, giovani universitari che ridono, scherzano, ballano, si scambiamo messaggi, come quelli che fatichiamo a sopportare quando turbano la nostra quiete, ma che siamo pronti ad abbracciare quando fanno parte della nostra vita…
Meditando sul massacro dei cristiani copti in Libia avevo voluto elencare tutti i loro nomi: l’enormità della strage in Kenya rende impossibile fare altrettanto, anche se sul web i giovani – sempre loro – hanno lanciato campagne per gridare che “147 non è solo un numero” e per ridare nome e volto a tanti ragazzi e ragazze come loro. Ma chi erano questi giovani dell’università di Garissa? Studenti come tanti, certo. Ma dietro a loro, come dietro ai migranti le cui speranze affondano nel Mediterraneo o nel deserto libico, ci sono famiglie, amici, compagni di studio, di giochi, di vita... Quando muoiono dei giovani, e ancor più quando vengono uccisi brutalmente, una certa retorica ci fa dire che erano il futuro della società, della chiesa, del loro paese, del mondo... In realtà, se guardiamo bene le immagini di questi volti, capiamo che i giovani non sono il futuro, ma parte essenziale del presente, del nostro presente. E sono, paradossalmente, anche parte del passato, luoghi in cui si deposita la memoria di quanti attorno a loro sono più ricchi di anni e più poveri di speranze.
E poi, non lo si vede dai volti, dai loro occhi e dai loro sorrisi, ma questi universitari di Garissa erano cristiani: alcuni sono stati uccisi mentre pregavano, altri probabilmente mentre si chiedevano il perché di questa brutalità, oppure dove era Dio, anzi dove era l’uomo in questa violenza assassina. La loro identità cristiana non la si coglie dalle fotografie perché da sempre – fin dai primi secoli e dalle prime persecuzioni – i cristiani non si differenziano dai loro fratelli e sorelle in umanità per colore della pelle o tratti somatici, per le città che abitano o i lavori che svolgono, ma per il loro comportamento, per uno stile di vita che cerca di restare fedele all’esempio e alle parole del loro Signore, Gesù di Nazareth. Ancor meno sappiamo, dalle foto e dalle notizie di agenzia, se questi giovani cristiani erano cattolici o protestanti, membri di chiese storiche o di congregazioni di recente fondazione: ma a questo ecumenismo del sangue le cronache recenti ci stanno tragicamente abituando perché chi uccide i cristiani non fa differenza di confessione, non risparmia gli uni per perseguitare gli altri, ma riconosce l’unicità della fede professata dai discepoli di Cristo e contro quella comune identità si scaglia.
L’appello che si alza da questi volti è uno solo: non guardateci come numeri, non accorpateci come un mucchio indistinto, non fate di noi una statistica. Ciascuno di noi è un nome e una storia, una vita e dei sentimenti, delle speranze e delle relazioni. E ciascuno di noi vi rende presenti altri volti e altri nomi, altre storie, più vicine a voi, più simili al vostro quotidiano, volti e storie che magari non volete guardare in faccia. Non considerate mai l’altro come un numero o, peggio, come un soprannumero: l’altro è sempre una persona, una storia, un capolavoro. Sì, nel volto dell’altro, se accettiamo di guardarlo, c’è il nostro volto, perché l’altro siamo noi.


Autore:
Enzo Bianchi


Fonte:
Vatican Insider

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Aggiunto/modificato il 2015-04-13

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